La nostra parrocchia
La Parrocchia di S. Pietro Apostolo gode del privilegio di essere tra le più antiche della città di Ariano Irpino. La sua importanza storica è dovuta alla collocazione della Chiesa, nel pieno centro storico, tra la Cattedrale e il castello Normanno. Conta 2400 abitanti suddivisi in circa 700 famiglie. La Parrocchia di san Pietro Apostolo è stata costituita, probabilmente, verso la seconda metà del XIII secolo e insieme alla basilica cattedrale è la comunità più antica di Ariano. Fino agli inizi degli anni 80 la Chiesa parrocchiale aveva il titolo di Chiesa Abbaziale. La Chiesa di san Pietro, seppur danneggiata più volte dai terremoti che si sono succeduti nel corso dei secoli, ancora oggi conserva in parte l’impianto originario e in modo particolare lo splendido portale gotico del 1459, opera del maestro Berillo da Cava.
Nascita della Chiesa e della Parrocchia
Si perde nella notte dei tempi, ma vi è una indicazione certa rinvenuta in un antico documento risalente al 1134, conservato nella biblioteca Vaticana. In esso venne riportato che Riccardo, vescovo di Ariano, diede al rettore della Chiesa di Santa Lucia la cura dei fedeli residenti nel suo territorio, ma appartenenti alla parrocchia di San Pietro della Guardia.
L’abbazia fu dedicata al Principe degli Apostoli molto venerato dai Longobardi, che probabilmente non solo costruirono la prima parte del Castello a difesa del nascente insediamento abitativo, ma, nelle sue vicinanze, anche il sacro edificio.
Era retta inizialmente da un Abate che fu affiancato nel 1452 da altri 5 sacerdoti, definiti canonici; successivamente furono istituiti altri due canonicati, a seguito di donazioni che garantivano il sostentamento dei sacerdoti.
La chiesa subì due devastanti aggressioni: una ad opera degli uomini, durante la proditoria invasione di Ariano da parte di Manfredi nel 1255, l’altra a seguito del violento terremoto del 1456.
Nel primo caso venne ricostruita per volontà e munificenza del re Carlo I d’Angiò, nel secondo con il contributo dei fedeli e per mano di tale Bermillo della Cava, che portò a termine l’opera nel 1492. Purtroppo altri eventi naturali sconvolsero sia gli edifici della città, che il nostro sacro tempio (terremoti del 1732, del 1930, del 1962 e del 1980), che sempre fu restituito al culto per l’intelligente interessamento dei vescovi del tempo, per la fattiva opera degli abati preposti e per il solerte e generoso aiuto economico dei cittadini.
La parrocchia fin dall’antichità era vasta, tanto che alla fine del XVI secolo contava oltre 1500 parrocchiani; si estendeva a nord-est della città ben custodita da mura poderose dalle quali si usciva attraverso una porta detta della Guardia.
Nel suo territorio sorgevano: due cappelle, dedicate una a Santa Maria di Costantinopoli e l’altra alla Madonna dell’Arco; il convento di San Bernardo, tenuto dai monaci Cistercensi, e la chiesa del Calvario. Di detti edifici oggi ne conserviamo solo la memoria.
Tra i parrocchiani più famosi vi furono: Niccolò de Hippolitis, che alla fine del 1400 diventò vescovo di Ariano; Decio Memoli, scrittore e storico nonché segretario di Paolo V, papa dal 1605 al 1621; i fratelli Tommaso, giureconsulto e storico, e Francesco Antonio Vitale, colto sacerdote e storico; Nicola Intonti, magistrato e ministro al tempo di Ferdinando II di Borbone; Emerico Pisapia, canonico della cattedrale e cronista accurato; Raffaele Intonti, magistrato, prefetto ed uomo politico.
La devozione a Sant’Antonio
In un antico documento, conservato nell’archivio parrocchiale di S. Pietro, sono riportati gli statuti disciplinanti l’attività della collegiata, dell’abate e dei canonici assegnati. Proprio da tale documento, risalente al 10 febbraio 1786, possiamo attingere altre interessanti notizie sulla vita della parrocchia. Infatti al capitolo 1° venne riportato “Uno dei Reioni (rioni), che questa Regia e sempre fedelissima Città di Ariano compongono, e tra essi l’ampiezza del di lui giro, e per la moltitudine dei suoi abitanti, ascendenti al numero di circa duemila, il più grande si è quello della Guardia, che per contenere nel suo recinto la più numerosa Parrocchia della Città, e per trovarsi quella attesa la di costei lunga estenzione non poco lontana dal Vescovado, ossia Cattedrale situata, fin dai secoli rimoti ha avuto pei Sacrifici per l’amministrazione dei Sacramenti, e per la pratica degli Atti di Religione la sua propria Badiale e Collegiata Chiesa sotto il glorioso titolo del Principe degli Apostoli S. Pietro”.
Dallo stesso documento apprendiamo, in merito all’abate, che “per essere egli Prima Dignità di Collegiata, richiedesi a tenore del Tridentino (Concilio), e della polizia del Regno d’essere Dottore, o Laureato in pubblica Università”.
Nel territorio parrocchiale, un tempo, sorgevano: due cappelle, dedicate una a Santa Maria di Costantinopoli e l’altra alla Madonna dell’Arco; il convento di San Bernardo, e la chiesa del Calvario. Di detti edifici oggi ne conserviamo solo la memoria.
Tommaso Vitale apprendiamo che la chiesa dedicata a S. Maria di Costantinopoli fu eretta nei pressi della porta della Guardia dalla famiglia Spaccamiglio “che vicino avevano la loro abitazione; come, oltre la costante tradizione, dimostravano le di loro armi gentilizie, che vi erano nella nicchia superiore alla porta di essa Chiesa ”.
Il nostro storico non conosceva l’anno di erezione del sacro tempio, per questo precisò “In qual tempo precisamente fosse stata eretta s’ignora, ma ciò non ostante si vuole, che detta famiglia seguisse l’esempio de’ Napoletani”, spiegando che costoro dedicarono alla madre celeste un altare in occasione della peste che infierì nel 1528.
Se così fosse allora possiamo sostenere che la chiesa dovette essere eretta ad Ariano nel 1656, anno in cui tale nefasto morbo colpì la nostra gente.
Altre utili informazioni su tale chiesetta ci vennero fornite da Nicola Flammia, il quale scrisse “S. Maria di Costantinopoli alla porta della Guardia, bellina e ricca di fregi, fatti da Liberato Caroselli, che ne è il custode. ‘E pulita, provveduta di parati; vi si fa festa l’8 settembre, e vi si dice la messa nel sabbato. Peccato che il Burrone sottostante ne minacci la rovina”.
Da questa descrizione apprendiamo che l’edificio sorgeva sul fosso definito e conosciuto “della Madonna dell’Arco”, oggi sul suo suolo sorge la casa della famiglia Garofoli.
Nella detta chiesa dedicata alla Madre celeste vi era il culto per Sant’Antonio, rappresentato nella statua in abito monacale con Gesù Bambino, poggiato sulla mano destra, e con il giglio bianco simbolo del candore della purezza portato nella mano sinistra.
La festività, celebrata il 13 giugno di ogni anno, era preceduta da una solenne e frequentatissima tredicina, composta da preghiere ed invocazioni al santo miracoloso. Poi il culmine della festività, preceduto dalla celebrazione di molte messe, era la processione della statua per le principali vie dell’intera città.
Tale processione nel passato doveva essere una prerogativa esclusiva della citata chiesa, creando in tal modo un certo risentimento in qualche parroco, come si può desumere da un documento della prima metà del secolo scorso.
Nel registro della cronaca della parrocchia di S. Nicola in San Domenico il parroco don Giuseppe de Leo per l’anno 1926 lasciò scritto alcune considerazioni sull’andamento della vita parrocchiale e sui desideri dei suoi parrocchiani. Scrisse “Il popolo reclama, festaiolo com’è, qualche festa esterna e si pensa alla festa di S. Antonio. ‘E invitato un Concerto Musicale. Si pensa ad una illuminazione del tratto della Nazionale, in cui si estende la Parrocchia”.
Fin qui nulla da eccepire, ma il parroco subito dopo aggiunse “Incomincia il bersaglio, l’ostacolo della Commissione della festa di S. Antonio della Chiesa di Costantinopoli, che reclama per se il diritto di feste esterne di S. Antonio, di processioni e quello che è più importante di questue”.
Era soprattutto su quest’ultimo punto che risiedeva il motivo del dissenso, perché si trattava di raccogliere il denaro sufficiente a fronteggiare le spese impegnate per la cosiddetta festa civile.
Da ciò si desume che la celebrazione della festa religiosa e civile, come la solenne processione doveva spettare, per antica tradizione, al rettore della chiesa di Santa Maria di Costantinopoli.
Ritornando al citato documento possiamo ancora leggere “Si raccolgono circa £. 4.000, ma si arriva alla spesa di circa £. 7.000. Nel rendiconto mi vedo abbandonato da tutto. Faccio però, con mio denaro, fronte agl’impegni! Ciò mi rende più conto e meno proclive ad ascoltare il consiglio e le preghiere dei festaioli, considerando, da sacerdote, che le feste della Chiesa Cattolica debbono essere feste interne, feste di raccoglimento, colla frequenza dei sacramenti, che instaurano lo spirito”.
Benché avesse fatto tali considerazioni, dettate forse dalla deludente riuscita della festa in forza della mancata raccolta di denaro, il parroco de Leo fece altre annotazioni per l’anno 1934. Scrisse “Nella chiesa, da immemorabili, vi è la Statua di S. Antonio, per cui ci è affollamento durante la tredicina. Fin dal primo anno del mio possesso portai in processione la Statua, in modo solenne per le vie di Ariano. Dandosi anche una festa esterna”.
Proprio tale festa esterna, si direbbe oggi civile, diede origine ai contrasti con quella fatta nel rione della Guardia, perché ribadì “Per questo ebbi tanta noia da una commissione di laici della Chiesa di S. Maria di Costantinopoli i quali ricorrevano a tutte le arti, pensando di avere il monopolio delle feste di S. Antonio, ottima scusa per la campagna per la questua del grano, del granturco ecc. dovendo sopperire, come affermano, alle deficienze del bilancio della festa”.
Non mancò di coinvolgere nella sua critica anche il sacerdote responsabile della cura di detta chiesa di S. Maria, dato che riportò “Il Rettore di quella Chiesa si associò a quei laici nel darmi noia. Compreso il casino ho pensato solamente all’incremento del culto del Santo, istituendo anche la festicina interna della Lingua di S. Antonio”.
Da tali notizie si desume che nella chiesa di S. Maria di Costantinopoli si praticava il culto per S. Antonio e che da tempo immemorabile si solennizzava la festa dedicata al Santo non solo con le pratiche religiose, ma anche attraverso una affollata processione ed una festa civile che coinvolgeva tutta la città e che era sostenuta da tutti i fedeli.
La devozione popolare si manifestava anche attraverso gesti e comportamenti significativi soprattutto se alla richiesta di una grazia era seguito il miracolo fatto da Sant’Antonio. Ecco allora che i nostri contadini mostravano la loro sincera gratitudine con la pratica di “li tririci verginelle” che in processione, scalze e con i capelli sciolti, accompagnavano il miracolato partendo dalla sua casa.
Lungo la strada le “verginelle” intonavano il seguente canto:
“Sant’Antonio miu bello
Mo’ si partuno li verginelle.
Lu iuorno tuio ea vinuto
Ci vinimo a livà lu vuto.
Tutte scalze e scapillate
Sonno razie ca c’ià mannato.
Sant’Antonio miu bello
C’ià libbirato stu nuosto fratiello (o sorella, se donna).
Stu nuosto fratiello (o sorella) ca c’ià libbirato
So li razie ca c’ià mannato.
A lu spitale grave steva,
Sant’Antonio l’assisteva.
Si vutavo e si ggirava
Sant’Antonio lu uardava.
Sant’Antonio miu bbello
Ca sta rint’a sta cappella,
Sta cappella alluminata,
So’ tutti li rrazie ca c’ià mannate.
Sant’Antonio miu bbello
Proia ‘na mano a li virginelle,
Si nu’ ngi la vo rà
Sant’Antonio votiti a pietà.
Am’arrivato a lu sacru raro
Qua c’iavima ‘ndinucchià
A lu sacru alitare ama i a prià.
Sant’Antonio miu bello
Stamuci bbuono a l’anno chi vene
Si nu ‘nci virimo di viso
Ci virimo ‘mparaviso.
Antonio Alterio